Postfazione di Luca Spadoni

Babbo e mamma mi osservano mentre gli faccio domande sui loro ricordi della pallavolo.


Babbo, perché noi lo si chiama ancora oggi così, alla toscana, mi guarda con lo sguardo un po’ perso di chi in oltre ottant’anni ne ha viste tante e, forse, niente più lo distoglie dai suoi due grandi interessi: tavola e poltrona.

Mamma, che da romagnoli doc è sempre mamma (anche se tutti noi figli siamo già sulla quarantina), mi guarda e “porta pazenzia”: pazienza, la somma virtù di mia madre e di ogni buon presidente.


Questi ricordi fanno il loro esordio oltre cinquant’anni fa a San Prospero, frazione di Imola, nel sabbioso campetto dell’oratorio: un’origine modesta considerando che in quello stesso frangente Armstrong e Aldrin scuotevano un altro tipo di polvere dai loro calzari lunari. 

Una storia non meno avvincente quella di Francesco e Anna, ma umile e vissuta dietro le quinte, fatta di colpi di reni per sollevare talvolta un pallone e talaltra cassette di pesche. 

La vita contadina era, ironico sottolinearlo, lontana “anni luce” dalle imprese dei cosmonauti, ma è proprio attraverso le avversità che anche i miei genitori sono diventati delle “star”... del volley.


<<Per aspera ad astra>> direbbero i latini, ma i miei genitori non hanno potuto studiare tanto per saperlo. Io avevo circa dieci anni quando mio babbo mi cantava piangendo “La Canzone di San Damiano: <<Se vorrai - ogni giorno con il tuo sudore - una pietra dopo l'altra Alto arriverai>>, suonata al funerale di un “suo” pallavolista scomparso troppo presto.

Ogni ragazzo del catechismo e della pallavolo era per Francesco e Anna Spadoni un figlio, un figlio ingombrante per chi come me figlio lo è davvero: basti pensare che mi son allenato per tutta l’infanzia con le bambine, massima verecondia per un sedicente atleta di dieci anni (col tempo poi cambierò idea sul potermi allenare con le ragazze della Clai;-)


Rispetto a tutte queste figlie, atlete, persone, i miei genitori sono sempre stati, come detto, dietro, con senso di servizio, e mai davanti (se non per guidare il mitico van rosso). 

Però delle soddisfazioni ce ne siamo “cavate”: abbiamo mangiato prosciutto e salame della Clai, la Cooperativa Lavoratori Agricoli Imolesi, da far invidia ai concittadini. 


Mamma ci svegliava qualche mattina d’estate con la borsa frigo pronta: panini alla mortadella, tè fatto con le bustine solubili e le immancabili pesche appena colte. Babbo stendeva un materasso nel Bedford rosso e noi quattro figli sdraiati dentro in direzione Milano Marittima... con in tasca le 100 lire per i “giochini” delle ambite biglie. 

Babbo ci scortava, poi dormiva in pulmino: quando non c’era la pallavolo, Spadoni portava le pesche al mercato notturno, peraltro senza mai accendersi una sigaretta o proferire una parola fuori posto, contro ogni cliché del camionista. Mamma una volta mi permise di accompagnare mio padre, docile in quella buona notte: era uno dei pochi modi per potergli stare a fianco allora. 


Quanta sagacia quel bambino.


Un giorno i miei figli chiederanno dei miei ricordi: spero potrò raccontare una storia altrettanto stellare.